Testimonianze di guarigioni nella medicina
ufficiale.
Mi capita spesso, soprattutto in questo periodo, di imbattermi in
testi riguardanti cure alternative per sconfiggere malattie gravi,
quali il cancro, la leucemia, la sclerosi, l' aids,....
Il primo dato che da nell' occhio è la totale contrapposizione tra
medicina ufficiale e soluzioni alternative per la cura di queste
terribili malattie.
E tutto questo nonostante migliaia di testimonianze per entrambi
gli schieramenti.
La medicina ufficiale con i suoi metodi inquisitori "mette al rogo"
anche importanti scienziati e medici non allineati che hanno trovato
cure alternative a quelle ufficiali ( chemioterapia, radioterapia,
chirurgia,..)
E queste cure alternative, nella maggior parte dei casi sarebbero cure
naturali e quindi di poco costo a base di stimolazioni
elettriche, di Bicarbonato, di vitamina c, Aloe, ....e che vanno a combattere
ancor prima che i sintomi, la causa della malattia, sia che sia
individuata in batteri, virus, funghi, stress, sia che la vedono nella
degenerazione cellulare.
L' altro schieramento, quello della medicina non ufficiale, ancor di
gran lunga minoritario ma sempre crescente con la maggiore
informazione, denuncia l' alterazione dei dati statistici della
medicina ufficiale, imputando alla stessa la morte di migliaia di
persone sottoposte a chemioterapia, radioterapia e chirurgia,
definiti mezzi barbari per sconfiggere una malattia e cause esse
stesse della maggior parte delle morti
per cancro.
Come venir fuori da questa non semplice
contesa?
Come risolvere una questione così importante dalla quale dipende la
vita o la morte di migliaia di persone ogni anno?
Preferiamo non pensarci e lasciare ai diretti interessati ( i malati e
i loro famigliari) il problema di scegliere una via piuttosto di un'
altra, dalla quale però dipenderà la loro sopravvivenza?
Mi sembra quanto meno doveroso informarsi,
leggere, studiare i casi e soprattutto vedere le testimonianze gi
guarigione da una parte o dall' altra, senza lasciare alcun chè di
intentato.
Questo è quello che voglio riportare in queste pagine, cercando di
dare una speranza in più alle persone che si trovano all' improvviso
dentro un incubo.
Cercando di far capire una assai difficile verità a tutti gli altri:
la vita è bella ma è piena di insidie e di ostacoli che prima o poi
tutti noi dovremmo incontrare, non fosse altro con l' ineluttabile
arrivo della "sorella" morte.
Per questo è importante saper vivere ogni giorno la nostra esistenza
nel modo migliore, cercando di cogliere ogni istante che ci viene
regalato nella più totale meraviglia e serenità. Solo così saremo
pronti ad affrontare qualsiasi avversità fino anche a quella estrema
della morte.
Oggi sembra Illusorio sperare che
prima o poi le forze del bene si uniscano tutte sotto un' unica
bandiera, cercando tutte insieme con la forza dei geni e delle persone
brillanti, degli scienziati di ogni estrazione, dei santi, i
guaritori,...i credenti di ogni religione e tutti noi, finalmente
consapevoli, di risolvere il problema della sofferenza del Mondo,
dell' uomo e della natura intera.
Non vogliamo essere sballottati da una parte e dall' altra seguendo la
conta dei morti. Vogliamo poter scegliere e per poterlo fare dobbiamo
conoscere cosa ci aspetta e cosa si può fare per risolvere la nostra
malattia.
Vogliamo anche essere in grado di affrontarla fisicamente e
psicologicamente e anche questo è un nostro diritto.
Perchè le testimonianze "rubate" qua la possono essere d' aiuto
a tante persone.
Nasce a Roma, dove vive, nel 1958. È sposata e ha due figli. Si laurea in Giurisprudenza alla Università Statale ‘La Sapienza’ di Roma e dal 1993 esercita la professione di avvocato amministrativista. Una donna di quarantacinque anni, una vita apparentemente normale: un marito, due figli, un lavoro. Tutto fila liscio fino a quando non arriva lui, ‘il bastardo’, un carcinoma al colon-retto.
Questo l’antefatto del romanzo “HO IL CANCRO E NON HO L’ABITO ADATTO”, la storia di una vita che cambia completamente da un giorno all’altro.
È la testimonianza di un viaggio alla scoperta di una malattia, un viaggio che nessuno vorrebbe mai fare, ma la donna, che ne è suo malgrado la protagonista, sceglie di farlo con tutta la gioia di vivere di cui è capace.
Cristina Piga parla della sua malattia in un modo assolutamente fuori dal comune, cogliendone aspetti tragici e comici, così come accade normalmente nella vita. Le crude descrizioni delle terapie si alternano alle banali vicissitudini del quotidiano, come ad esempio un vestito che non ti va più.
L’autrice racconta il suo percorso per sconfiggere il cancro con toni dolci-amari, spesso con punte di divertita autoironia, dimostrando che guarire è possibile ed è sicuramente più facile se non si smette di guardare al futuro con ottimismo e non si rinuncia mai a essere se stesse.
Anna ha 44 anni, è una hostess di terra all’Aeroporto di Linate ed è mamma di Greta e Sofia, di 13 e 6 anni.
Nella sua famiglia già la nonna e la zia materna erano state colpite da tumore.
Nel 1996, a 33 anni, una normale visita di controllo rileva la presenza di un fibroadenoma al seno, che il medico le raccomanda di tenere controllato. Basta questa piccola indicazione ed Anna si attiva.
Dopo diverse vicissitudini subisce l'intervento chirurgico, che permette la diagnosi vera e propria di tumore al seno e che richiede una mastectomia radicale.
Dopo l’operazione Anna si è sottoposta a 6 cicli di chemioterapia preventiva e racconta di essere riuscita ad affrontare quel brutto momento grazie alla presenza di sua figlia Greta, che in quel periodo aveva 1 anno.
Dopo l’intervento Anna si è sottoposta a ricostruzione del seno e nel 2001, concluse tutte le cure, è diventata nuovamente mamma di Sofia, che ha allattato al seno sano per 8 mesi.
Mi sono ammalato di
linfoma non Hodgkin all’età di 8 anni. Ho
subito la chemioterapia e sono stato
ricoverato per le cure a periodi per circa
un anno. Ora sono completamente guarito.
Mi sono ammalato di linfoma non Hodgkin all’età di 8 anni. Il 5 giugno 1986 sono stato ricoverato in gravi condizioni all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna. Durante i primi sintomi della malattia infatti ho tenuto nascosto i dolori che quotidianamente avevo all’addome.
Molti mi hanno chiesto il perché di questa mia reticenza ma forse la ragione più significativa è data dal mio carattere. Ho sempre avuto una grande sopportazione al male e ho passato parte della mia infanzia con i miei nonni in campagna, quindi quando avevo i dolori così lancinanti mi nascondevo.
Anche i miei genitori all’inizio pensavano che utilizzassi questi dolori come scusa per andare nel loro lettone a me tanto caro. Iniziarono comunque una serie di visite ma all’inizio le fitte addominali vennero scambiate in coliti. Poi quella notte le fitte iniziarono di continuo e iniziò l’avventura. Ho subito chemioterapia. Sono stato ricoverato per le cure a periodi all’Ospedale Sant’Orsola per circa un anno e ora sono completamente guarito.
Ho cercato sempre di godermi quello che il destino mi condete, cerco di gioire e nonostante il lavoro impegnativo cerco di non perdere il valore per le piccole cose, per un sorriso o per due chiacchere tra amici. Ho fatto tantissimi lavori, dal barista, al tecnico, al gestore. Oggi sono titolare di una agenzia di telecomunicazioni, gioco a tennis, portiere di calcetto, amante della vela e quando nevica il sapore dell’aria mentre scio è impagabile.
Sono già passati diciotto anni da quel cinque giugno. Alcuni potrebbero pensare che ormai la mia memoria sia offuscata, che abbia ormai cancellato quelli che per alcuni potrebbero essere spiacevoli ricordi. Quando anche quell’esperienza ha condizionato e condizionerà tutta la mia vita, non sono pessimista o pieno di tristezza, anzi…
Nella mente non mi sovvengono però fatti specifici o momenti particolari, ma un sentimento che oggi, come allora, mi aiuta a proseguire e a superare gli ostacoli più grandi. Anche se non ricordo distintamente, nome per nome i dottori e le persone che mi furono accanto, di loro avrò sempre un ricordo indelebile. Oltre alle medicine, quanto mai provvidenziali, ciò che mi ha fatto veramente sconfiggere e combattere il “Cattivo”, sono stati i medici, lo staff dell’ospedale, i miei parenti e, soprattutto i miei genitori. Quel sentimento non si può chiamare semplicemente amore è qualcosa di più profondo. Ho potuto superare quei giorni grazie a mia madre e mio padre che con la loro presenza, con il loro affetto, con la loro fiducia in me, mi hanno dato la forza d’avere voglia di vivere e di credere in me stesso.
Molti penseranno
che una persona così giovane in un
letto d’ospedale non possa pensare
o provare queste cose ed in fondo,
è vero. Non capivo, infatti,
quanto fosse importante la
presenza dei miei genitori sempre
costante, l’afflusso di parenti e
amici, e i dottori che tenacemente
non mi davano il tempo di
arrendermi e di non sperare più
nel futuro. Solo oggi posso
capire, perché allora ero
impegnato a lottare contro
qualcosa che spesso non mi dava il
tempo di ragionare e riflettere.
Semplici gesti d’affetto, che
spesso riteniamo superflui, a
volte possono salvare la vita a
qualcuno, dandogli la speranza. Ci
sono momenti in cui il destino
sembra accanirsi contro di noi,
contro i nostri famigliari o
contro i nostri amici. Spesso,
come penso tutti, mi sono chiesto
se fosse un caso o no. È inutile
arrendersi o accettare le cose
così come sono.
Con la mia esperienza sono venuto a contatto con una realtà per me sconosciuta. Ho conosciuto un mondo astratto nel quale l’amore infinito tra me e i miei genitori e quello delle altre innumerevoli persone che mi hanno aiutato, a fatto sì che potessi lottare e aprire quella porta in modo tale che le medicine questo dovrebbe far riflettere tutti noi. Ogni giorno centinaia di persone giovani scoprono di avere un tumore e per fortuna molti di loro guariscono e parlandone scoprono quanto vasto il numero di ammalati. Eppure non se ne parla, quasi un tabù: io stesso fino all’età di 18 anni non ne ho parlato con nessuno forse perché allora sembrava il vero Male, quello improvviso e non tangibile, troppo grande per essere raccontato.
A otto anni mi hanno diagnosticato un linfoma non Hodgkin, i medici mi avevano dato il dieci per cento di probabilità di guarigione. Oggi grazie ai progressi della ricerca più del 60 per cento dei malati si salva. Queste mie poche parole e queste mie foto servono solo a far capire che il cancro da invisibile sta diventando sempre più tangibile. Che anni di sforzi nella ricerca e nella sensibilizzazione di chi ancora ha paura di ciò nel non vuole accettare perché non riesce a toccarlo, sono serviti a qualcosa.
Grazie alla ricerca il genoma umano è stato sequenziato, grazie alla ricerca si scopre come uno stile di vita corretto e sano possa prevenire del 50 per cento i tumori e, finalmente, oggi grazie alla diagnostica molecolare, possiamo riscontrare un tumore nella sua fase iniziale aumentando di molto la possibilità di guarigione. Non sono un dottore, né un ricercatore, ma ogni anno persone che dedicano la loro vita agli altri mi contattano per essere un esempio vivente delle loro ricerche. Ogni anno mi accorgo quanto la scoperta del nostro corpo apra a soluzioni che, a breve termine, sembravano fantascientifiche.
Oggi anch’io sono stato catturato dalla frenesia del progresso e da ciò che ne segue. Dentro di me, però, rimane non un ricordo di sofferenza, ma qualcosa che mi fa vedere e capire le situazioni e le personalità altrui, le più disparate. Sembrerà egoistico, ma a volte, un gesto d’amore può salvare la vita a qualcuno, principalmente salva la nostra.
Nel 1997 i medici diagnosticano a Lorenzo un tumore al testicolo. Lorenzo viene subito operato e sottoposto a chemioterapia.
In questo difficile periodo, Lorenzo non sapeva ancora di avere vicino a sé la sua futura moglie. A curarlo, infatti, è la dottoressa Ilaria Pazzagli, in quel periodo borsista della FIRC, che sposerà poi nel 2003.
Le cure cui Lorenzo è stato sottoposto avrebbero potuto impedirgli di avere figli, ma Ilaria e Lorenzo hanno avuto la gioia di diventare mamma e papà di Edoardo che oggi ha 3 anni e tra pochi mesi diventeranno nuovamente genitori.
Lorenzo ha voluto raccontare la sua esperienza contro il cancro in un diario che è poi stato pubblicato col titolo: “ORECCHIE DI ELEFANTE ovvero il cancro che ho sconfitto”. Parte del ricavato è stato devoluto ad AIRC.
Vi proponiamo un brano di questo libro, di cui è stata rispettata la stesura originale.
12 dicembre
1997
Nel sonno sono colto da un dolore fortissimo
alla schiena.
Mi agito nel letto e i miei movimenti
svegliano Lara.
Penso subito ad una contrattura muscolare.
Cerco una posizione che mi permetta di
sentire meno il dolore: è tutto inutile.
Lara mi propone di andare al pronto
soccorso, ma io le rispondo che non è niente
di grave, è solo la solita contrattura che
ogni tanto si fa sentire.
Ma il dolore si fa sempre più acuto.
Lara insiste nel volermi portare
all'ospedale.
Saliamo in macchina senza nemmeno cambiarci.
Al pronto soccorso diagnosticano una colica
renale.
E' notte fonda.
Mi danno un letto per attendere il mattino,
quando si faranno "tutte le analisi del
caso".
Sono nervoso: essere ricoverato vuol dire
perdere giorni preziosi per lo studio.
E' una notte di sofferenze perchè gli
analgesici non mi fanno passare il dolore.
L'ultima notte in cui ho potuto permettermi
di provare disagio per un semplice dolore
fisico; per qualcosa che avrebbe comunque
avuto una fine.
Lentamente arriva il mattino.
L'infermiera si avvicina e mi preleva il
sangue per le analisi.
E' poi la volta della dottoressa.
Mi visita. Le faccio notare un rigonfiamento
che ho sulla sinistra dell'addome. Lei
verifica, lo controlla, ci torna sopra. Mi
assicura che è solo una reazione muscolare
dovuta ai dolori della notte.
Da quel momento tutto cambia: mi siedono su
una sedia a rotelle e mi portano da un
reparto all'altro. Mi sottopongono ad un
esame, poi ad un altro e un altro ancora.
Non mi fanno più seguire i percorsi normali:
passo avanti a tutti. Ad ogni esame sento
crescere la tensione di chi mi sta intorno.
Sono trasferito nervosamente da una TAC ad
un'ecografia.
Sento che qualcosa non va, che dagli esami
deve essere risultato qualcosa di grave.
Domando ad un dottore, poi ad un altro. Poi
ad un'infermiera, poi ad un altro dottore.
Nessuno mi informa.
Finalmente rientro nella stanza del pronto
soccorso.
Tutto torna tranquillo.
Dopo qualche minuto entra un dottore, mi si
siede davanti e inizia a parlarmi in termini
medici, che io non capisco.
Lo lascio parlare.
Ad un certo punto lo interrompo, gli chiedo
di essere più preciso. Lui smette di
guardarmi negli occhi, e così capisco che
c'è qualcosa di grosso. Riprende a parlare,
questa volta più chiaro ma senza mai
riuscire a riportare il suo sguardo nei miei
occhi.
Parla di testicolo, di rene, di intestino e
poi, dopo una breve pausa, di cancro.
Tutto si ferma.
Cerco di pensare a qualcosa. Sempre più mi
accorgo che c'è una sensazione che mi
avvolge, quella sensazione che non mi
lascerà più: c'è qualcosa che ha già deciso
per me.
Senza chiedermi niente, di nascosto.
E nulla può servire a cambiare le cose, è
tutto già deciso.
Ha messo le sue luride mani sul mio corpo.
Ha deciso come e quando.
Lara telefona a mia sorella, Giulia, che
accorre.
Giulia chiama mio padre.
In un primo momento non gli dicono nulla.
Arriva in ospedale con la sua solita
tranquillità.
Mi trova seduto su una seggiola e non sembro
avere nessun problema. Mi dice che possiamo
tornarcene a casa.
Sa soltanto che ho avuto una colica renale e
che mi hanno trattenuto in ospedale per
alcuni controlli. Gli dico di andare a
parlare con il dottore del pronto soccorso
perchè ha chiesto di lui.
Non ho ancora pensato a come dire a mio
padre cosa mi è successo e, quando lo vedo
arrivare, mi rendo conto di non essere
assolutamente preparato.
Non sono in grado di trovare le parole
adatte.
In quel momento sento un senso di colpa nei
suoi confronti.
So che la notizia non potrà che
sconvolgerlo, e darei qualsiasi cosa per
poterlo evitare.
Quando lo vedo tornare dal pronto soccorso è
completamente bianco in volto.
Da questo momento cominciano le
considerazioni, i pensieri, i dubbi di chi
si trova in una situazione che dall'esterno
è impossibile immaginare.
L'unica speranza che ho di salvarmi è la
chemioterapia, tanto cruda e crudele quanto
la malattia che vuole combattere.
Non sono tanto i suoi effetti collaterali
sul mio corpo a preoccuparmi, quanto i segni
che sul corpo lascerà, e che trasformeranno
la mia immagine agli occhi di chi mi
conosce.
Ma non sarà tanto la mia immagine a
cambiare, quanto il mio atteggiamento
psicologico nei confronti di un nuovo mondo.
In una sola notte tutto si è capovolto.
Ogni pensiero, ogni aspettativa, dalla più
piccola alla più grande, tutto diventa parte
di un mondo che fino ad un attimo prima
c'era, e che, come per un incantesimo, è
scomparso.
In una sola notte tutto si è capovolto.
Quel male di cui spesso si parla è diventato
il fulcro della mia esistenza: quel male che
appartiene sempre e solo agli altri, che non
avrebbe mai potuto coinvolgermi in prima
persona.
In una sola notte tutto si è capovolto.
Lorenzo Purini
ORECCHIE DI ELEFANTE ovvero il
cancro che io ho sconfitto
1999, Tirrenia Stampatori
All’età di 9 anni giocando a pallavolo dopo una forte pallonata le si gonfia la gamba. Nel giro di 10 giorni la gamba diventa il doppio dell’altra.
Barbara è nata a Roma. All’età di 9
anni giocando a pallavolo dopo una forte pallonata le si
gonfia la gamba. Nel giro di 10 giorni la gamba diventa
il doppio dell’altra. Il primo controllo medico
tranquillizza i genitori e Barbara continua a giocare a
pallavolo anche se il dolore e il gonfiore persistono.
Un giorno un gesto affettuoso del padre – che le stringe il ginocchio – la fa balzare in piedi per un dolore fortissimo. Il padre preoccupato decide di portare Barbara da un pediatra che capisce subito la gravità del caso e la sottopone immediatamente a una radiografia che evidenzia un osteosarcoma.
Barbara viene indirizzata immediatamente al Rizzoli. La notte stessa Barbara e i suoi genitori partono per Bologna.
Il 27 dicembre Barbara inizia la chemioterapia con buoni risultati. Il corpo risponde in maniera adeguata. Il 7 aprile viene operata. Si parte con l’idea di fare un intervento molto demolitivo. Barbara è disperata, ma per sua fortuna le diagnosi pre intervento dimostrano che il tumore è più piccolo di quanto si pensava e che probabilmente si potrà fare un intervento meno invasivo. Dopo l’operazione il primo ricordo di Barbara al risveglio è la voce del padre che le conferma che la gamba non è stata amputata.
Dopo l’intervento prosegue la chemioterapia e negli anni si sottopone a diversi interventi causati dal continuo accrescimento del suo corpo data la giovane età. Barbara continua a fare controlli periodici per evitare il rischio di tumore al polmone.
Barbara oggi è guarita. Periodicamente va al Rizzoli a ritrovare i suoi medici e si dedica ai pazienti ricoverati perché pensa che la sua testimonianza possa servire moltissimo a chi sta lottando contro la malattia.
Appena prima di Natale, una mattina a scuola gioca con i compagni, cade, prende una botta al ginocchio. Non ci fa neanche caso. Passerà, come sempre. E invece non passa...
È dura quando hai 11 anni, sei una bambina che ha appena cominciato a divertirsi nel gioco della vita, e d’improvviso capisci che il gioco cambia, e che il gioco nuovo non è bello per niente, e ti fa soffrire, e ti fa diversa dagli altri coetanei, e non capisci perché le cose siano cambiate così in fretta.
Nel 1990 Lucilla Ticcari
abita in una bella casa a Roma, ha due
genitori che le vogliono bene, un fratello
maggiore, Michele, che l’adora, va bene a
scuola, ha un sacco di amiche, è brava in
danza classica. Appena prima di Natale, una
mattina a scuola gioca a spintoni con i
compagni, cade, prende una botta al ginocchio.
Non ci fa neanche caso. Passerà, come sempre.
E invece non passa. Il dolore rimane. Ma
quando va a farsi vedere dal medico, Lucilla
si sente ancora la protagonista di una fiaba.
Le fanno una radiografia, il medico la fa
vedere ai suoi genitori e spiega che è meglio
fare qualche altro controllo, c’è una strana
ombra tra il femore e il ginocchio.
E Lucilla fa le altre analisi al Policlinico di Roma. I genitori non le dicono nulla, non vogliono certo preoccuparla parlando di un possibile tumore alle ossa, chissà poi che razza di malattia è un tumore. Ma lo sguardo di mamma e papà è cambiato, e poi c’è da andare a Bologna, a farsi vedere da un grande medico, ed è solo un’intuizione, ma di colpo Lucilla percepisce che forse la sua fiaba si sta trasformando in qualcosa di diverso. «Mi avevano diagnosticato un osteosarcoma», spiega Lucilla, che oggi ha 24 anni, sta benone e, ironia della sorte, a Bologna è tornata, ma per studiare all‘Università, dove è arrivata al quinto anno di medicina, forse non un caso anche la scelta della facoltà. «L’osteosarcoma, lo avrei saputo molto più tardi, è un cancro che colpisce un centinaio di persone all’anno in Italia, quasi sempre in età adolescenziale.
Il tessuto tumorale si forma nella parte interna delle ossa e poi si espande, conquista spazio verso l’esterno, togliendolo alle cellule sane. I medici non fecero tanti giri di parole per dirmi cosa mi aspettava: dovevano curarmi, dovevo aspettarmi mesi di ospedale intervallati da brevi rientri a casa, dovevo essere forte perché avrei sentito del dolore, perché non avrei potuto andare a scuola, perché dovevo interrompere la danza classica, perché avrei perso i capelli, perché avrei dovuto restare a letto per giornate intere con una siringa al braccio. Mi sembrava di vivere un sogno, forse un incubo. Da un lato ero quasi contenta di saltare la scuola, dall’altra ero sconcertata, non capivo cosa mi stava succedendo, avevo paura. E devo ringraziare i miei genitori che mi sono sempre stati vicini, mia mamma che non mi ha abbandonato un giorno, mio papà che faceva la spola tra Roma e Bologna. E devo ringraziare l’équipe dei medici e degli infermieri del Rizzoli di Bologna, le maestre con cui facevo qualche lezione in corsia per non restare troppo indietro, i compagni e le compagne di un’avventura che nessuno aveva scelto di fare. C’era chi la prendeva meglio, chi peggio, e con alcuni siamo rimasti in contatto per anni, perché si era stabilita una complicità tutta speciale. Ricordo anche tante ore vuote, tante ore di attesa, che io occupavo soprattutto leggendo e scrivendo, perché al Rizzoli veniva redatto un giornalino interamente scritto dai bambini ricoverati».
«Dopo diversi cicli di chemioterapia», continua Lucilla, «venni operata a maggio. Un’operazione lunga 7-8 ore, un intervento innovativo, fatto per la prima volta su una bambina della mia età: mi tolsero l’ultima parte del femore, una ventina di centimetri di lunghezza, salvaguardando al massimo il tessuto sano. Al suo posto misero un tratto di femore prelevato dalla “Banca delle Ossa” presente proprio a Bologna. Tutto finito? Per niente. Altri controlli medici. Altri cicli di chemioterapia e, per un anno, fisioterapia tutti i giorni, per tornare a muovere bene la gamba e il ginocchio. Mi vedevo tutti i giorni con il fisioterapista ed era nato un rapporto speciale: ogni volta lui sapeva che mi avrebbe fatto male e io sapevo che avrei sentito male. Dopo un anno i medici verificarono che la fusione tra il mio femore e l’osso innestato non era perfetta. E via un altro intervento, in cui vennero utilizzati dei frammenti di osso prelevati dalla mia anca. Dopo un po’ - era il 1993 - in uno dei controlli scopersero una metastasi polmonare: altro ricovero, altro intervento. Intanto avevo finito le medie, mi ero iscritta al liceo classico, ma non era proprio semplice andare in classe con le stampelle, il tutore, senza capelli».
«Era dura per me, ma era dura anche per i compagni», ricorda Lucilla. «Alcuni non erano proprio preparati ad affrontare il dolore, la malattia. Sono anni in cui ho imparato a conoscere meglio le persone, a capire chi mi vuole veramente bene e chi finge per convenzione. Ora sono passati dieci anni dall’ultimo intervento, sono guarita, conduco una vita del tutto normale: devo giusto stare un po’ attenta nello scegliere gli sport, perché ho un rischio maggiore di rompere gamba e ginocchio. Ma ho praticato l’aikido, un’arte marziale, e la scorsa estate sono stata in Africa, con l’Università. A volte mi guardo indietro e penso che la malattia mi ha tolto alcune cose, ma ne ha date altre. Prima di stare male ero sicuramente un po’ più stupida. Dopo ho capito molto di più la felicità che danno le piccole cose, quando anche una passeggiata diventa una conquista. E quando mi sembra che lo stress e i problemi di tutti i giorni mi travolgano, mi capita d’istinto di ripensare alla mia lotta contro il cancro. E tutto, come d’incanto, trova la sua giusta dimensione, nella scala delle priorità».
Oggi, a sette anni di distanza, di
quella parentesi quasi non mi ricordo più. Solo, ogni
tanto, un pensiero fugace che ho imparato ad
allontanare.
«Una brutta parentesi nel fluire tranquillo della mia vita. Un mese o poco più di paure. Ma come tutte le parentesi, con un inizio e con una fine.
E oggi, a sette anni di distanza, di questa parentesi quasi non mi ricordo più, la mia vita è tornata ad essere esattamente quella di prima e, dalla mia esperienza, posso proprio dire che il cancro è una malattia come tante altre: è possibile esserne colpiti ma si può guarire.
Un’esperienza di cui non ho difficoltà a parlare, perché credo possa essere utile a tante altre persone».
Rosaria Severino, partenopea, insegnante di lettere in una scuola media a Lago Patria, villaggio residenziale alle porte di Napoli, parla con distaccata soavità della sua “brutta parentesi”, di quel cancro del colon che apparve come un fulmine a ciel sereno sette anni fa, proprio alla vigilia di San Silvestro. «Non avevo mai avvertito alcun fastidio, se non qualche ricorrente periodo di stipsi», dice la professoressa Severino. «Non riuscivo quindi a capacitarmi di quello strano dolore all’addome. Vista la stagione pensai lì per lì a un sintomo influenzale, ma c’era qualcosa che non tornava. Al tatto sentivo uno strano rigonfiamento, forse non è nulla di importante - mi dicevo - ma, d’accordo con mio marito, il mattino dopo andai al pronto soccorso per farmi vedere.
«Mi fecero un’ecografia, poi il medico chiese di fare altri accertamenti - tra cui un clisma opaco - per saperne di più. Ricoverata in un ospedale vicino a casa, feci i test ed emerse quell’orribile sospetto: c’era la possibilità che all’origine di tutto fosse un tumore al colon. Si annunciava proprio bene l’anno nuovo…
«Ma mi feci forza, anche grazie a mio marito e alle mie due figlie, che mi hanno supportata e coccolata lungo tutta la mia… brutta parentesi. Parlando anche con amici e conoscenti, decisi di farmi ricoverare in un centro specializzato nel trattamento dei tumori.
Detto fatto mi ritrovai al reparto di chirurgia addominale dell’Istituto Tumori di Napoli, venni subito sottoposta a una colonscopia, che confermò la diagnosi e che indusse i medici a suggerirmi l’intervento chirurgico per rimuovere la massa tumorale. “Quando”, chiesi? “Subito”, mi risposero. Non c’era proprio tempo da perdere, pare. Così, nel giro di pochi giorni mi ritrovai dai preparativi per il veglione di fine anno ai preparativi per finire in sala operatoria…
Andò tutto bene. L’operazione, il decorso, le tre settimane che rimasi in ospedale. Nessun dolore, nessun fastidio, nessuna complicazione. Così come andò liscio il ciclo di chemioterapia che iniziai una volta tornata a casa. Ero preoccupata, temevo di perdere i capelli e brutte idee di questo tipo, alimentate dal sentito dire. In realtà sopportai bene la chemio, credo fosse tra l’altro un ciclo “leggero”, non persi neanche un capello, giusto avvertii un po’ di nausea dopo le ultime sedute.
E intanto cominciavo a mordere il freno. A scuola avevo ovviamente smesso di andare, ma io col passare dei giorni mi sentivo sempre meglio e avevo voglia di tornare al lavoro, dai miei ragazzi. Perché lo sentivo come un dovere, ma anche come un piacere, e poi mi sembrava un modo per non restare a casa a fare nulla. Con la mente troppo libera di fissarsi sulla paura che il male tornasse a farsi vivo. Con il pensiero che spesso andava all’ospedale, alle terapie, al timore di una ricaduta. Be’, per qualche mese dovetti stare al gioco del riposo forzato, ma a settembre, con l’inizio del nuovo anno scolastico, tornai in aula. E, da allora, non ho più smesso, anche adesso che avrei la possibilità di andare in pensione.
Ogni tanto mi assento dalle lezioni per fare esami di controllo (che stanno diventando peraltro sempre più radi) e questo è l’unico punto di contatto che mi riporta a quella brutta parentesi. Per il resto vivo come prima, meglio di prima. Non ho nessun disturbo, mangio di tutto e digerisco bene. Sì, lo ammetto, quando sento un dolorino qua o là non posso fare a meno di avvertire un’ombra, di essere presa dalla paura di una ricaduta. Ma è un pensiero fugace, che ho imparato ad allontanare. La parentesi - per me - è chiusa».
Mi chiamo Mirella, sono medico di
professione, ho conosciuto il Signore nel marzo 2003. Prima di
convertirmi vivevo in una famiglia cristiana ma non praticante,
molto aperta,che mi ha sempre facilitato: si parlava di Dio e- di
Gesù in modo sereno, non coercitivo,né bigotto, però, a causa di
problemi e drammi che ho dovuto affrontare nel corso della mia
vita, mi ero costruita una corazza difensiva, per proteggermi dal
rischio di essere ferita. Ho sempre dimostrato un carattere
estroverso, con gli amici e al lavoro,consapevole del fatto che i
miei pazienti avevano bisogno di aiuto, mentre in campo
sentimentale ero decisamente più chiusa e prudente.